giovedì 2 marzo 2006

Lacrime inopportune

Vi devo raccontare una cosa. Non sono riuscita a dirla a nessuno, ma forse scriverla mi farà bene.
Per la prima volta in venti anni che lavoro in ospedale mi sono messa a piangere, sono letteralmente scoppiata in lacrime davanti a un paziente.
Lui sta morendo e ne è perfettamente cosciente. Le sue condizioni fisiche sono estenuanti: non funziona più nulla. Mi sono affacciata sulla porta della sua camera; mi ha guardata; sono entrata, gli ho chiesto -Come va?- ha socchiuso gli occhi e poi mi ha domandato quanto, uno nelle sue condizioni, può andare avanti. Ha fatto insomma una domanda indiretta, forse per una residua, minuscola incredulità. Gli ho risposto che nessuno lo può sapere, che non esistono regole, che di varianti ancora ce ne sono.
Armeggiavo tra pompe e flebo per darmi un contegno, per rimandare quanto sapevo sarebbe successo, poi infatti l'ho guardato e addio, giù a piangare.
Mi sono sentita così stupida, inutile, perfino dannosa. Ma come? Invece di aiutarlo, di confortarlo, di sorridere, piango. Io, mica lui, io! Mi ha anche preso la mano, poverino, per consolarmi.
E ora sono qui a cercare di capire che cavolo m'è preso. Cosa c'è di diverso stavolta. In fondo si tratta della morte. Nient'altro che della morte.

18 commenti:

artemisia ha detto...

Se ti può consolare a me anni fa è capitata esattamente la stessa cosa, un paziente col quale c'era un rapporto speciale perchè lo sentivo molto simile a me e sapevo cosa pensava. Improvvisamente un giorno mi ha chiesto se lo vedevo molto cambiato. Era preterminale. A quel punto non so cos'è successo nè perchè ma sono scoppiata a piangere, ed era lui a consolare me. Sapevo che non l'avrei più rivisto, perchè stava per tornare a casa, e non riuscivo a dirgli addio. Mi disse che era il pù bel regalo che avessi potuto fargli, quello di mostrargli che mi importava di lui, che era quella la vera professionalità. Mi disse che poter consolare un'altra persona è un privilegio che ai malati spesso si toglie, e che invece fa loro molto bene.
Seppi poi che era morto una decina di giorni dopo.

Te lo racconto perchè so cosa provi e perchè.

Non è la morte a farci paura, è il distacco.

PiB ha detto...

il distacco credo che Artemisia abbia colto nel segno...quello che ti ha fatto piangere è la consapevolezza di questo...il perchè sia acaduto con questa persona e non con altre potrebbe esere determinato da tante cose...cmq il tutto si focalizza in quella sensazione della separazione

rodocrosite ha detto...

Il distacco sì, ma anche vedere la sofferenza e non poter far niente, mentre si vorrebbe fare qualsiasi cosa. Non è una persona particolare lui per me, è solo che ho percepito tutta la sua solitudine e la mia impotenza.
Grazie per le vostre parole, davvero, mi ci volevano.

artemisia ha detto...

Di niente. Comunque il concetto chiave è: le lacrime non sono mai nè opportune nè inopportune.

PiB ha detto...

Hai percepito tutta la sua solitudine e forse è successo anche con altri pazienti...solo che in questo caso ne hai acquistato coscienza.

Henry ha detto...

artemisia mi hai tolto le parole di bocca. dopo aver letto questo bellissimo post (grazie rodocrosite!) mi son detto che il titolo era sbagliato. le lacrime non sono mai inopportune, specie quelle sentite.
e' vero, la morte non fa paura ma il distacco...il distacco e' sempre terribile...anche quando morte non c'e'

artemisia ha detto...

Ogni distacco è una piccola morte...e forse la morte vera non è affatto un distacco.

rodocrosite ha detto...

Grazie ragazzi, siete speciali!

Quello che non mi piace della morte è che poi il rapporto cambia, forse non è un vero e proprio distacco come dice Artemisia, ma di fatto quella persona non la puoi più considerare come prima; magari la sogni, ci parli, ti sembra che sia ancora lì. Ma è diverso, ovviamente.

SI-FA-SI ha detto...

Vero: inopportuno e' un aggettivo sbagliato. La chiamerei empatia verso un altro essere umano.
Il tuo lavoro ti da' un ruolo chiave e speciale per molte persone, hai la possibilita' di far funzionare l'ingranaggio che ci fa piu' paura dalla notte dei tempi: la malattia.
Trovare una persona che "sente" le sofferenze di una altro in un ambiente come un ospedale dove, penso in un modo o nell'altro, si debba riuscire a sdrammatizzare le condizioni dei pazienti o senno' sarebbe un clima pesantissimo di tristezza e pianti, non e' cosa da poco.
Il sentirsi vicino ad una persona piuttosto che ad un'altra in un determinato momento, capita senza una ragione specifica credo; delle volte semplicemente riesci a far stare sul fondo certi sentimenti, delle altre poi senti la necessita' inconsapevole di buttare fuori, e con le lacrime urlare: Ma che mondo di merda e' questo?Perche?
O almeno io mi sentirei cosi'.
Se io fossi quel paziente, penso che vorrei l'attenzione che te gia' gli dai, penso che vorrei un'infermiera con un sorriso che lenisca un po' le mie sofferenze, penso che semplicemente vorrei sentire un profondo contatto umano, anche facendo due chiacchiere sul tempo e sulle cose di tutti i giorni.
Fai un lavoro importantissimo, sottovalutato, sottopagato...Non lo sapevo..Ora capisco la definizione di Artemisia quando ti chiama Nightingale..Credevo fosse un modo di dire per una parte del tuo carattere..E anche te Artemisia infermiera?? Ragazze, siete proprio in gamba, date retta a me..Mi piacete ancora di piu':-D
Dai un abbraccio al tuo paziente da parte mia,

SI

rodocrosite ha detto...

Accidenti Silvia, che risposta! Ora mi metto a piangere di nuovo. Eh no, basta, meglio guardarsi Stanlio e Ollio come propone Riccardo.
In effetti fa piacere sentirsi capiti e vi do la mia parola che stavolta ne avevo proprio bisogno.
Fare l'infemiera è per me un gran bel lavoro, ma ho cominciato ad aver paura della famosa sindrome del "burn out", cioè bruciato. Una volta bruciato sei fregato, non resta che cambiare aria. Non voglio arrivarci, ma non so neanche bene che fare per evitarla. In Italia è un pasticcio anche da questo punto di vista; Artemisia vive beata lei in un'altra realtà: la Norvegia è avanti anni luce, lì è tutto più a misura d'uomo, malato e non.

artemisia ha detto...

Senza contare che Artemisia ora fa un altro lavoro... ma del mio passato mi mancano i pazienti, le loro storie, le loro facce. Ora ho solo i loro dati, e i miei colleghi sono tutti medici (noiosi).
Grazie Silvia. Dissento solo su una cosa: la parola "sdrammatizzare" mi sa un po' di paternalismo, di "come andiamo oggi?". Io penso che i pazienti vadano trattati con rispetto per quello che provano, e la loro situazione è drammatica. Si tratta di imparare a conviverci, non di negarla o fare finta di nulla. È questo che un'infermiera brava fa col paziente, affronta insieme a lui la situazione, lo accompagna professionalmente. Lo aiuta a sperare comunque, se non in una guarigione, in una buona morte, nell'affetto di chi lascia. Per questo è importante dire sempre la verità, anche se a volte è meglio non dirla tutta.

Ma mi rendo conto che è più facile lavorare bene quando ci sono le condizioni per farlo, e in Italia purtroppo è dura.

rosso fragola ha detto...

complimenti ragazze, per l'umanità e l'amore con il quale fate il vostro lavoro, da alcuni ho sentito dire che "poi ci si abitua", grazie al cielo non è così.
La morte fa parte della vita, è inevitabile, eppure credo anch'io che ciò che più ci spaventa è il senso del distacco, la lontananza da chi amiamo, amico o paziente che sia. Mi è capitato purtroppo di sentirmi rivolgere la stessa domanda, anche se non sono un'infermiera, e la persona in questione era un caro amico che stavo assistendo; è stato terribile.
Tempo dopo ho conosciuto una signora che lavora come volontaria per sostenere psicologicamente i bambini terminali.Avete capito bene, non adulti ma bambini, e qui mi crolla ogni forza. Sai Rodocrosite, sono certa che in quel momento il tuo paziente abbia percepito da parte tua tanto amore, e questo nei momenti più difficli è importantissimo e di grande aiuto.
Non farti delle colpe che proprio non hai.Un bacio

artemisia ha detto...

...assaporate queste parole...bambini terminali...un ossimoro, uno scandalo, una domanda che urla.

vesuvio ha detto...

magari in italia c fossero piu' infermiere capaci di guardare davvero un paziente, di pensarlo come una persona e nn solo come un caso clinico che nn risponde piu' ad un protocollo medico, qlc che fosse capace di comprendere la paura che lui ha della vita e della morte e del distacco e avesse il coraggio di condividere questo sentimento...magari!!

artemisia ha detto...

Bè, almeno una c'è...Rodocrosite!
Comunque guarda, le persone in gamba sono distribuite in modo uniforme sulla terra. Il problema in Italia purtroppo è che non esistono le condizioni per crescere professionalmente, per fare bene il proprio lavoro, e che purtroppo gli ambienti e le mentalità comuni sono quelli che sono.

rodocrosite ha detto...

E' vero, verissimo. Che si può fare? A me viene in mente solo la soluzione di andarmene, ma poi resto...

Alex ha detto...

Mamma che botta. Dico sul serio: non mi e' mai successa una cosa del genere ma da come lo descrivi deve essere devastante. Mi dispiace. Per chi o per cosa non lo so ma...mi dispiace.

rodocrosite ha detto...

Ciao Alex, benvenuto. Beh, non è sempre divertente fare l'infermiera e la morte la si sente molto a portata di mano anche se uno cerca di non fissarcisi. Quel signore è morto dopo un paio di giorni dal mio exploit, spero senza dolore.
Ma qui non c'è requie: altri sono già in dirittura d'arrivo.
Quello che sorprende è di trovare sempre qualcosa da imparare e da ricordare di loro: quando nonostante tutto sorridono, ti fanno la battuta, oppure intercetti qualche sguardo che parla più di una vita, o ancora quando li vedi mano nella mano col marito, o la moglie.
Insomma è la vita.